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C’è una grande differenza fra scienza e filosofia. Il filosofo non deve dimostrare le sue teorie, lo scienziato, invece, è tale se dimostra che la sua interpretazione è la sola possibile.

In Italia si sentono tutti scienziati, però non si capisce come è che stiamo affossati ogni giorno sempre più.

Non sono una scienziata, ma conosco la scienza perché l’ho studiata. Ho studiato anche filosofia e mi piace tantissimo, ma da lì a dire che l’interpretazione è scienza ce ne passa. Perché la filosofia è interpretazione e le interpretazioni sono infinite.

Essere circondati da saputelli a ‘na certa scoccia: Dio e Sapientino sono delle costruzioni umane, non sono scienza. Rilassatevi.

Pavlov non era uno scienziato, la sua era interpretazione, una delle tante interpretazioni possibili. Per quel che mi riguarda… stacca il collare al cane, poi ne riparliamo!

Chi si mette a filosofare sulla relazione mente-corpo dà semplicemente una sua interpretazione, non una prova scientifica e inconfutabile della realtà: se così fosse, avremmo risolto già da tempo tutti i problemi umani e la ricerca scientifica non avrebbe alcun senso.

Se è certo che il corpo umano ha delle basi chimiche, biologiche, biochimiche e fisiologiche indiscutibili, è altrettanto sicuro che non tutti funzioniamo allo stesso modo. Un esempio semplice e banale è l’alimentazione: dicono che la verdura e la frutta fanno bene, la carne rossa fa male e via discorrendo. Dicono… Chi? I medici? Te lo dicono perché anni di ricerca hanno portato statisticamente ad alcuni risultati. Alcuni, però, non è “l’assoluto”: non è la certezza scientifica “fino a prova contraria.”

C’è gente che vive fino a 100 anni mangiando solo proteine e non incorre in nessuna malattia. Come c’è gente che si nutre di sola frutta e verdura tutta la vita e si ammala di cancro. Tutto questo e il suo contrario succede. Non possiamo ancora spiegarne il perché, come facciamo, invece, con il funzionamento di un hardware o di un software. E, almeno personalmente, penso che non si arriverà mai ad una spiegazione assoluta su certe cose. Non siamo dei computer tarati in massa. Tutto ciò che ci accomuna sono gli istinti animali, per il resto siamo diversi. Perché non siamo solo un corpo, siamo anche una mente e, neuroni di qua, ormoni di là, esperienze su e giù, ci rendono unici.

Esistono esseri umani in cui la mente e il corpo si comportano come unità flessibili: collaborano, “parlano” fra loro, per il benessere individuale (occhio: individuale, non mondiale!), e non importa chi all’esterno dica cosa dovrebbe fare o non fare, quella mente e quel corpo sanno come far star bene se stessi, quando controllarsi, quando lasciarsi andare, quando fare team, quando fare da soli, etc. E soprattutto sono quegli esseri umani che non andranno mai a dire in giro “le mie teorie sono sacre, tu hai torto, devi fare e pensare ciò che penso io.”

Secondo la mia esperienza (non è una valutazione scientifica ma un’interpretazione statistica, naturalmente) la maggior parte delle persone che ha questo tipo di relazione fra la propria mente e il proprio corpo ha fatto o fa sport. Ciò non significa che queste persone non abbiano mai “momenti no” nella loro vita, anzi: semplicemente si rialzano da soli, con la forza di volontà e la pazienza, perché lo sport insegna questo: il dolore c’è e ci sarà sempre, quanto dura dipende solo ed esclusivamente da te, spesso “i limiti sono solo illusioni.”

E’ sempre una questione mente-corpo! Relazione sociale, relazione sentimentale, relazione sessuale, lavoro, alimentazione, sport, etc. La questione mente-corpo è tra le più studiate perché affascina gli uomini e non potrebbe essere diversamente: il fascino è là dove non si hanno certezze. Immagino sia fantastico studiare scientificamente la questione mente corpo ed è normale anche discuterne filosoficamente.

Bene: studiamola e discutiamola, è utile e splendido farlo. Ma, per carità, quando condividete il vostro pensiero/la vostra interpretazione, non fatelo come se fosse l’unica, una legge scientifica indiscutibile. Perché non lo è. Perché ciò che è vero e buono per voi, può non esserlo per qualcun’altro. Perché troverete sempre qualcuno, come la sottoscritta, che reagirà di fronte alla vostra sicurezza ed insistenza come di seguito:

  • la prima volta vi dice che c’è una grande differenza tra la filosofia e la scienza;
  • la seconda volta in cui provate a convincerla che la vostra è l’unica verità indiscutibile, vi sorriderà e vi dirà “ok”, solo per quieto vivere;
  • la terza volta vi sorriderà ancora e si infilerà le cuffie dell’mp3 nelle orecchie (nel mio caso una cuffia in un solo orecchio, perché da uno ci sento, pure triplo e mi basta. Mi avanza anche 🙂 !).

 

 

 

 

Ieri ho camminato più ore di seguito di quanto non faccia di solito, causa festa del paese, ergo: giostre, bancarelle, gente, fuochi e palco in piazza con pseudo musicisti e pseudo cantanti impegnati ad improvvisare pseudo cover di pseudo rock (vedi Vasco –.–‘). Risultato: mi sono resa conto che, in realtà, durante la giornata non muovo abbastanza il piede malandato: quattro ore in piedi a far su e giù hanno irrimediabilmente procurato un dolore lancinante ai miei metatarsi e alla mia caviglia.

Mio fratello e i miei amici mi guardavano sorridendo dolcemente, cercando di distrarmi e farmi godere la festa. Ma… come fai a divertirti quando un piccolo passo ti percuote il cervello con una scarica di dolore che ti piega in due? Ieri sera, la festa, non me la sono goduta per nulla, anzi, era come se fossi in un altro mondo: fisicamente per le strade allegre del paesino c’ero pure io certo a passeggiare con la massa e sorridere e annuire etc; ma con la testa chissà dove ero.

Avevo il mio bel vestitino estivo nero con le ruches che mi piace tanto; mi ero truccata il poco che basta per risaltare l’abbronzatura e, naturalmente, indossavo i miei bellissimi e comodissimi sandali etnici rigorosamente piatti. Ma… ero il silenzio fatto persona, ed io per natura parlo, parlo pure troppo a detta di molti! Il punto è che i miei sensi percepivano il massimo del “reale” e reagivano a dovere, ma il mio cervello credo stesse passeggiando nell’irreale socio/antropologico. O forse nell’irreale del punto interrogativo perenne.

Mi ricordo tutto perfettamente come se lo stessi vivendo ora: i suoni delle giostre, la musica della pseudo band e il chiacchiericcio delle persone assatanate di socialità, le luci soffuse delle bancarelle e quelle brillanti dei fuochi d’artificio, io che rispondevo alle domande, ricambiavo un saluto, un sorriso, mi provavo un braccialetto. Ricordo perfettamente ogni singola parola delle conversazioni fatte nella compagnia o con chi si fermava a parlarti come la buona società vuole che si faccia anche se, probabilmente, a più della metà non gliene frega una emerita ceppa se stai bene, che fai e che non fai. Ricordo il sapore della crema al limoncello ghiacciata che mi rinfrescava gola e anima.

Ma ricordo molto bene anche come, più passavano le ore, più il mio piede si intorpidiva di dolore e, nonostante mi limitassi a zoppicare e probabilmente a storpiare con smorfie di leggera resistenza il mio viso, non ho mai fiatato riguardo lo stato penoso in cui mi trovavo.

Dovevo resistere. E ho resistito, ma, mi sa che per farlo la mia mente si è vista costretta ad adottare la tattica dell’estraniazione: la bipolarità mentale… esiste? Bho. In sostanza, voi sapete come si chiama quello stato in cui ciascuna cosa che vedi, senti, assapori, odori e chi più ne ha ne metta ti porta a pensare a tutt’altro rispetto a quello che semplicemente è? Io non lo so, non sono mica una psicologa, ma provvederò a chiederlo a qualche amico del settore.

La crema al limoncello, per esempio, mi ha riportato alla mente il ricordo di una serata di qualche anno fa in cui camminavo leggiadra saltellando e sorridendo: era estate, ero nel mio paesino di nascita come lo sono adesso, era festa e indossavo un vestito bianco, ero pienamente concentrata su ciò che stavo vivendo e le riflessioni esistenziali quella sera in cui mi stavo palesemente divertendo con “ciò che semplicemente è” non avrebbero potuto mai e poi mai attraversare il mio cervello. Che cosa c’era di diverso da allora? Era il dolore al piede che mi aveva cambiata? Era il fatto che prima possedevo il pensiero che, passata l’estate, sarei tornata nella capitale? Ero innamorata? Ero semplicemente più ottimista nei confronti del mondo perché possedevo la facoltà di fare due cose semplici e belle, camminare e ballare? Non lo so.

Le persone: ragazzine non ancora maggiorenni vestite per una piccola festa di paese come se stessero andando in discoteca con abiti fascianti e tacco quattordici con tanto di plateau; tante ma davvero tante coppie che si tengono per mano silenziose e che guardano il vuoto o mangiano un gelato seduti per ore ed ore senza proferir parola tra loro; una marea di gente sotto il palco a cantare canzoni di Vasco anche se Vasco a loro non piace o forse sì ma solo perché piace a tutti; ex piccole compagne di giochi che si son sposate, non hanno studiato, hanno una bambina in braccio e con cui gentilmente cerchi di chiacchierare ma ti rendi conto quanto non avete più nulla in comune perché mentre lei ha fatto un bambino tu hai lavorato e ti sei presa due lauree e sei andata a bere e fumare in quel di San Lorenzo.

Tutti felici e gentili con chiunque, perché ci sono le luci, c’è la festa!

Il tuo piede dolorante e la tua mente temporaneamente bipolare allora ti suggerisce (bastarda?!): “cara, chiediti, perché? Perché tutto questo?” Mi sembrava di esser in una commedia teatrale. Mal recitata però. Con l’aggravante di non aver ancora capito se anche io facessi parte della rappresentazione o piuttosto fossi uno spettatore, o entrambi.

Ad un certo punto ricordo anche di aver pensato “Voglio avere per fidanzato Pirandello. Oppure no, meglio Heidegger!”

Al terzo giro di crema al limoncello ho pensato che forse, oltre al piede, era anche l’alcool a inondarmi la testa di domande sceme. Perché noi esseri umani nella quotidianità non ci filiamo poi così tanto e durante le feste tutti dobbiamo rigorosamente assumere un atteggiamento socialmente attivo e proattivo nei confronti del mondo? Che senso ha?

Ho pensato anche di essere io l’anomala in tal senso, perché spesso mi capita di vivere la dinamica opposta: nella quotidianità mi ritrovo a chiacchierare con chiunque, sconosciuti, barman, commesse, anziani, bambini, gente incontrata per strada, alla posta, nella metro, al mare. Succede che tra una cosa e l’altra mi raccontano i fatti loro e, sinceramente, non mi dà affatto fastidio, anzi, è piacevole.

Succede che ci si scambi pareri, emozioni ed esperienze a vicenda senza alcun fine, senza alcuna necessità conformista di voler dimostrare alla società quanto siamo bravi a rispettare la convenzione e l’etichetta. Ecco: questo genere di socialità è quella che preferisco, perché mi pare molto più umana e molto meno costruita.

E’ una boccata di aria fresca in un mondo di profumi chimici, e lo è indipendentemente dalla natura positiva o negativa del discorso di turno fatto.

Comunque, dato che la causa scatenante di tutto questo riflettere probabilmente inutile  – e non solo – è stato il dolore al piede, ho deciso di impegnarmi seriamente. E quando dico impegnarmi seriamente non intendo solo limitarmi alla fisioterapia, magnetoterapia, laser-terapia, andare in bicicletta e nuotare: senza alcun dubbio son tutte cose che mi fanno bene, ma io devo ri-abituarmi a fare la cosa più semplice ma a quanto pare per me ultimamente più difficile al mondo: camminare.

Camminare, però, non per pochi minuti, ma per ore di seguito, sforzandomi a sopportare il dolore. Oltretutto ad agosto avrei una gara di nuoto e mi piacerebbe poter ritornare a danzare come una volta, perché quello sì, per me, è adrenalina pura, felicità e gran divertimento. Dopotutto, con un obiettivo piacevole all’orizzonte la resistenza che ho sempre avuto nello sport dovrà per forza di cose ritornare in me, permettendomi di battere e controllare questo stupido piede molliccio ;).